PATRIMONIO NON CANTATO

Fiabe e favole

Introduzione
di Aniello Russo

La magia occupa una parte consistente nei racconti della tradizione popolare irpina, e quindi anche nei cunti di Bagnoli. Il nostro patrimonio, infatti, è costituito da storie in cui i personaggi sono dotati di poteri straordinari; e più precisamente, le fiabe che si raccontavano a Bagnoli esprimono spesso il sentimento dell’occulto, sicché costituiscono una ricca letteratura delle creature fantastiche (Janàra, Scazzamarieddu, Pumbunàru…). 
Il mondo fantastico è ulteriormente potenziato dall’utilizzo di oggetti fatati, per lo più strumenti sensibili che cadevano sotto gli occhi di tutti nella realtà di ogni giorno: come la mazza che, picchiandola a terra, realizza ciò che si vuole (Mezzòmmunu). Con questi oggetti l’eroe supera i suoi limiti umani. 
L’eroe procede nell’avventura sempre con passo sicuro, perché all’aiuto esterno aggiunge il suo coraggio e la sua astuzia. Non eroe passivo, allora, ma eroe coraggioso nel buttarsi a capofitto nell’avventura. E’ vero che i protagonisti di queste storie, se non fossero sostenuti dall’oggetto magico, rischierebbero di soccombere; ma è pure vero che, senza le proprie virtù, l’audacia la furbizia l’inventiva, difficilmente supererebbero le prove, a cui vengono sottoposti. 
Vi sono storie fiabesche che hanno come protagonisti i bambini, i quali posseggono abilità straordinarie. Il coraggio di questi eroi minuscoli (Vungolicchio), come degli eroi portatori di handicap (Mezzòmmunu), non si immiseriva né di fronte ai grandi né di fronte ai formidabili eroi negativi. Questi racconti assolvevano a una grande funzione sociale, dando indirettamente valore ai deboli, storpi ciechi sordi, che diventavano nella finzione protagonisti di storie che li elevavano nella considerazione della comunità. Dunque, nel repertorio fiabesco a superare la prova imposta è sempre il più debole e il più umile, che così viene a incarnare la rivalsa di una classe sociale da sempre vittima dei soprusi dei più forti. 
Nessuna storia popolare, che veniva trasmessa oralmente, può dirsi assolutamente bagnolese; ma, come non può dirsi del nostro paese, non può dirsi neppure napoletana o lucana o calabrese. La stessa fiaba tu la puoi trovare a Bagnoli, come ad Ariano, o nella Basilicata; ma anche più lontano, nel resto d’Europa, in Russia o in Africa. Ma se è vero che spesso le nostre fiabe sono simili alle narrazioni conosciute in altre aree, va detto pure che questo nostro patrimonio orale si è impregnato dello spirito della nostra terra.La narrativa popolare bagnolese ha finito così col raccontare la storia della nostra gente, le sue angosce quotidiane e i suoi sogni, i suoi timori e le sue speranze.
Caratterizza la nostra fiaba popolare la costante presenza dei morti (La messa r’ li muortiZa’ Tetta e l’ombra r’ lu maritu…). C’è comunque in ogni cuntu qualcosa che magicamente allude al rapporto con quelli che non ci sono più. I personaggi ci legano al passato attraverso le generazioni, per cui i defunti continuano a vivere in queste storie, e ci parlano con le loro paure ancestrali. 
La fiaba piaceva ai bambini di un tempo soprattutto perché rappresentava il mondo fra reale e irreale, fra sogno e concretezza, e questo li aiutava a distinguere il bene dal male e a prediligere il giusto all’ingiusto. L’alternanza di reale e irreale è già nelle filastrocche recitate a guisa di prologo:

Ng’era na vota                                                                                                    
nu viecchiu e na vecchia:
arrètu a lu specchiu,
sott’a nu pontu:
statti cittu ca mò te lu contu.                                                                                    
Oppure la narratrice tirava fuori un ago che teneva appuntato sul maglione, e mentre minacciava di pungerli i piccoli, recitava come prologo quest’altra filastrocca:

Sacciu nu cuntu…
cu l’acu te mettu nu puntu:
cu l’acu zucculàru
nu puozzi mai cacà;
cu l’acu picciriddu
te pongu lu iretieddu;
cu l’acu finu finu
te cacciu re stentìne;
cu l’acu gruossu gruossu 
te spezzu tutte r’osse!

Anche al termine del racconto, la narratrice recitava una filastrocca, detta di epilogo, diversa da quella del prologo. Essa coglieva di sorpresa gli ascoltatori e assumeva la funzione dell’inaspettato momento del disincanto. La strofa che sempre appariva in margine al racconto deragliava dai significati che uno a quel punto si aspettava, sicché il narratore, deridendo i suoi piccoli ascoltatori, li metteva in sospetto e li risvegliava:

A l’ùrdumu cacciàrene la torta:
a nnui nu’ nge ne riére
ca stiemme arrèt’a la porta!

(Al temine del banchetto servirono la torta: ma a noi non ne toccò, perché stavamo dietro la porta). Il compito della strofa di chiusura era quello di riportare, seppure in modo brusco, i piccoli spettatori dal mondo fantastico al mondo reale. Ma suscitando il riso.

 

Indice degli argomenti

  1. Titolo delle fiabe e delle favole di Bagnoli Irpino