PATRIMONIO NON CANTATO
Indovinelli
L’indovinello popolare
Sulla narrativa popolare da tempo è calato il silenzio. Una letteratura è viva finché durano i contesti in cui essa esercita la sua vitalità e la rinnova. Questa letteratura, variegata nelle sue forme (fiaba, favola, leggenda religiosa, racconto, aneddoto, novella erotica), comprende anche il detto sagace, la filastrocca recitata come una cantilena… e l’indovinello popolare. Già, l’indovinello. Chi pone più a un bambino uno degli indovinelli di un tempo?
Quannu scénne, scénne rerènne;
quannu nghiana, nghiana chiangènne
(Quando scende, scende ridendo, quando sale, sale piangendo). Nessuno saprebbe indovinare che si tratta del secchio del pozzo. L’acqua oggi scorre dal rubinetto, in casa. E allora, a che serve richiamarlo alla memoria? A che gioverebbe riproporlo ai bambini di oggi? Eppure se solo pensiamo a quelle insulse trasmissioni televisive, basate sui quiz, che propongono domande insulse e quesiti contorti, relativi a argomenti di nessuno spessore culturale… ci ritorna la nostalgia degli indovinelli della nostra infanzia. La nonna, all’approssimarsi della raccolta delle castagne, quasi come un momento di iniziazione, ai suoi nipoti proponeva immancabilmente questo indovinello (Bagnoli), che oltre ad avere un intento educativo, è connotato pure da una certa poeticità espressiva:
Iànca so’, nera me fazzu,
caru nterra e nu’ mme scafàzzu;
caru nterra p’ mmurì,
e pàtrumu se la rire.
(Bianca sono, nera divento, cado a terra e non mi schianto; cado a terra per morire, mentre mio padre se la ride: la castagna è la figlia, mentre l’albero è il padre). Queste immagini rivelano una vena di fantasia tutta nostra, inconfondibilmente irpina. L’enigma popolare testimonia l’ostentazione di capacità inventive da parte di chi lo propone, piuttosto che la perspicacia di chi dovrebbe risolverlo. Infatti, gli indovinelli per lo più sono di difficile comprensione, e venivano proposti per saggiare la prontezza e l’intelligenza degli interlocutori. Non mancava uno più perspicace che non si lasciava sviare dall’apparenza, ma sapeva vedere al di là delle cose. Egli seguiva attento la gestualità e il tono di voce del proponente, e imbroccava la risposta. Del resto all’interno delle parole che costituivano l’indovinello ce n’era sempre una che metteva i piccoli sulla strada giusta:
Tengu roie funustredde:
a lu juornu re tengu aperte
e a la nottu stannu chiuse.
(Ho due finestrelle: di giorno le tengo aperte, e di notte stanno chiuse: gli occhi). Più che indovinare la risposta, i bambini imparavano. E fissavano nella mente la soluzione, per essere pronti la volta successiva a precedere gli altri nello scioglimento dell’indovinello. E’ umanamente impossibile rispondere a molti di questi grattacapo che si avvalevano di un linguaggio simbolico e di una terminologia allusiva. Quale soluzione esigono gli elementi in cui è articolato il presente indovinello (Bagnoli)?
Ddui luciénti, ddui pungiénti,
quattu piròcchele e na scopa.
(Due occhi luminosi, due corna pungenti; quattro bastoni per zampe e una scopa come coda: il bue). Su un indovinello talora ruota una intera vicenda, come in un racconto irpino (cuntu), in cui si narra la storia di un uomo che viene ingiustamente condannato a morire di fama; ma la figlia, che da poco ha partorito, gli fa visita ogni giorno e lo nutre con il suo latte. Scoperta, viene condotta dinanzi alla Corte reale. Il Re pretende di conoscere il nome della persona che nutre il condannato. E lei risponde proponendo un enigma: “Ero figlia e adesso sono mamma, ho un figlio marito di mia madre!” Il padre viene così graziato dal Re sia per l’amore da lei mostrato sia per la sagacia dell’enigma che imbarazza i saggi di Corte.
Origine dell’indovinello
L’indovinello ha una storia antichissima, e forse era adoperato sin d’allora con le stesse modalità presenti nella nostra civiltà contadina. Compare sin dai primi scritti dell’umanità, ma la sua origine è sempre popolare. Ne abbiamo un esempio classico nel mito greco, ripreso da Sofocle nella tragedia: Edipo re. Il protagonista risolve il famoso enigma della Sfinge: qual è la bestia che all’alba cammina con quattro zampe, nel meriggio con due e alla sera con tre? Edipo subito le rispose: l’uomo, che da bambino cammina anche con le mani, da adulto su due piedi e da vecchio aiutandosi col bastone.
Strutturalmente simili agli indovinelli sono i responsi oscuri emessi dalle Sibille o dalle Pizie dell’Oracolo di Delfi, interpreti della volontà di Apollo, che parlavano per enigmi. Ecco il più famoso: Ibis redibis non morieris in bello! L’oracolo è ambiguo.
A seconda della collocazione della virgola abbiamo: 1. Andrai, ritornerai, non morirai in guerra! 2. Andrai, non ritornerai, morirai in guerra!
Infine, il famoso indovinello veronese, risalente agli albori della nostra letteratura volgare (secolo VIII): Se pareba boves, alba pratàlia aràba et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba: Aveva innanzi a sé i buoi (le dita), arava bianchi prati (il foglio candido), e un bianco aratro teneva (la penna), e nero seme seminava (l’inchiostro).
Naturalmente le centinaia di indovinelli, che io ho rilevato nelle varie zone d’Irpinia, nulla hanno della gravità letteraria, né tantomeno ostentano velleità erudite, come gli enigmi appartenenti alla tradizione scritta. Anzi la maggior parte dei nostri indovinelli, con le immagini che richiamano l’ambiente in cui vivevano, testimoniano, nella loro genuinità creativa, il colore e il sapore di questa terra. E non mi riferisco soltanto all’aspetto linguistico, cioè al dialetto irpino, che ha comunque una sua tipicità, o al mero gioco dell’arcano. Essi sono rivelatori delle attività lavorative dei nostri nonni: la pastorizia e l’agricoltura, soprattutto. Ecco i primi (Bagnoli) che attengono all’allevamento delle pecore e delle mucche:
Ngimm’a na muntagnèlla
ngi so’ tanta pucurèlle:
passa lu lupu
e r’arrerùpa.
(Su una montagna ci sono tante pecore, le lendine; passa il lupo, il pettine, e le butta nel dirupo). Nell’indovinello che segue la mucca è indicata con il suo organo precipuo, la poppa (fiasca ca nun s’ammocca, cioè fiasco che non rovescia mai il suo contenuto) e i quattro capezzoli (quattu vocche, cioè quattro aperture): Ng’è na fiasca cu quattu vocche sotta e nu’ s’ammocca.
Quest’altro (Ariano) documenta la diffusa cultura della vite nella nostra provincia. L’indovinello rappresenta così gli elementi della pianta della vite: il padre (il tralcio) è molto lungo; la madre (la vite) ha il tronco contorto; la figlia (il grappolo d’uva) ha la faccia tonda:
Lu patre èa luonghe luonghe,
la mamma èa torciglione,
la figlia piettitonna.
Gli indovinelli osceni
Gli indovinelli più divertenti, però, sono quelli che alludono al sesso. Essi esplicitamente fanno riferimento alle parti intime del corpo e all’atto sessuale, ma il ricorso al linguaggio erotico è solo sviante per l’interlocutore: laddove ci si aspetta la soluzione triviale, ecco all’impensata la spiegazione innocente. Chi partecipava al gioco enigmistico sospettava che nel quesito era implicita una presa in giro, ma sapeva stare allo scherzo. Per ridere e per imparare. Di questo tipo di indovinelli ne circolavano una quantità enorme; e il narratore (non necessariamente uno più anziano), li proponeva da impostore in mezzo a una frotta di ragazzi e di fanciulle, con lo scopo manifesto di deridere, ma pure con l’intento di suscitare il riso. Se vogliamo indicare un’ascendenza di questo genere di indovinelli, dovremmo risalire alla feconda letteratura erotica latina, da Catullo a Ovidio e a Marziale, caratterizzata dal componimento breve (epigramma) e connotata dal doppio senso e da una manifesta oscenità (soprattutto i Carmina Priapea), libera da ogni intento religioso o filosofico.
La fémmena lu piglia
lu iuornu ca se sposa,
lu Papa lu tène
e nun l’aùsa,
la véreva lu tenìa
e l’è pperdùtu.
Accummènza cu la c…
che ggh’è?
(La donna lo prende il giorno che va sposa, il Papa ce l’ha ma non lo usa, la vedova ce l’aveva e l’ha perduto; inizia con la lettera c… che cos’è? Il cognome). Ecco come l’innocente gesto di infilarsi la calza di lana ha suggerito la creazione di un altro indovinello:
Ng’è na cosa,
pelosa ra fore,
pelosa ra intu;
aìza la coscia
e féccalu intu.
Come è facile notare, l’ilarità suscitata dall’indovinello non posa sulla soluzione, ma sull’esposizione della domanda. In una donna la collocazione inferiore di una ferita larga quattro dita, inequivocabilmente richiama i suoi organi genitali. Tranquilli, neppure questa volta la soluzione è scurrile. Infatti la risposta è la piega inferiore della veste lunga (Avellino):
Tutte ‘e femmene ‘a tèneno sotto:
chi sana e chi rotta,
chi zuzzosa e chi pulita,
non cchiù llarga ‘e cingo réte.
Recita un altro indovinello (Bagnoli): quando tua madre fila col fuso, ce l’ha aperta o chiusa? Tutti pensiamo alla stessa cosa, e siamo pronti a dare la nostra soluzione al quesito. Ma le parole vengono spente sulle nostre labbra dalla risposta inaspettata: la mano!
Quannu màmmeta fila lu fusu,
cummu la tène aperta o chiusa?
E il maschio, il maschio? In età avanzata che cosa ha che gli penzola inerte tra le gambe? E pure questa volta la soluzione deraglia dal significato che ognuno si aspettava. Quando il vecchio mormora le preghiere, a penzolargli tra le gambe è la corona del rosario:
Quannu lu viecchiu nfuntutéa,
miezz’a re ccosci li penneléa.
Anche la tradizione ebraica testimonia l’uso dell’indovinello, sotto forma di enigma sacro. Ne basta un solo esempio (Libro dei Giudici, XIV): dal corpo del vorace venne fuori il cibo, e dal coraggioso la dolcezza; l’indovinello allude all’uccisione da parte di Sansone (coraggioso) del leone (vorace), dalla cui carcassa viene fuori il cibo (api).
Non mi convincono le motivazioni di quanti (Johan Huizinga, Edward B. Tylor, Giuseppe Pitrè) sostengono che gli indovinelli popolari rappresentano la degradazione dell’enigma letterario e la banalizzazione degli oracoli ambigui del mondo religioso classico; il passaggio insomma da una dimensione filosofica, o addirittura dalla speculazione teologica, a “forme di gioco elementare”. Che c’entrano gli indovinelli volgari con il carattere sacro degli enigmi delle Sibille? E poi, negli enigmi sacri e negli oracoli di Apollo era in gioco la morte. I nostri indovinelli parlano per lo più del lavoro e del sesso. Cioè, della vita!
Gli indovinelli di trasmissione orale, questi nostri giochi verbali, sono piuttosto una reinvenzione popolare, avvenuta nel Medio Evo, nel periodo di esplosione del volgare, che offriva una forma linguistica più viva e forniva una comunicatività più vasta e più immediata. Essi documentano la capacità creativa del popolo, di una società che possedeva una cultura autonoma la quale veniva trasmessa oralmente, ed era sempre rinnovata e arricchita, passando ininterrottamente di bocca in bocca. Fino alla nostra generazione, colpevole della grande frattura culturale con le nuove generazioni.
Aniello Russo
Indovinelli di Bagnoli Irpino
1.
Iànca so’, nera me fazzu,
caru nterra e nu’ mme scafàzzu;
caru nterra p’ murì,
e pàtrumu se ne rire
Bianca sono, nera divento,
cado a terra e non mi schianto;
cado a terra per morire
e mio padre se la ride.
(La castagna e l’albero)
2.
Tengu na cosa longa e stretta,
ca fùje cumm’a na saetta
Tengo un arnese lungo e sottile,
che scappa come un fulmine.
(Lo schioppo)
3.
Quannu scénne, scénne rerènne;
quannu nghiana, sagli chiangènne
Quando scende, scende ridendo,
quando sale, sale piangendo
(Il secchio del pozzo)
4.
Maronna mia, e quistu che ggh’è?
Pitta la casa e pittore nun è!
Tène re corna e vòiu nun è:
meserecordia, quistu che ggh’è?
Madonna mia, e questo cos’è?
Imbianca la casa e imbianchino non è!
Tiene le corna e toro non è:
misericordia, questo cos’è?
(La lumaca)
5.
E’ àvuta quant’a nu castieddu,
faci la pista quant’a n’anieddu
E’ alta quanto un castello,
traccia una pista quanto un anello
(La canna)
6.
Int’a na casarèdda,
longa vascia e stretta,
ngi stanne tanta ggente
ca frabbeca senz’acqua,
senza càvici e senza matùni
In una casetta,
lunga bassa e stretta,
vi è tanta gente
che fabbrica senz’acqua.
(Le api nell’alveare)
7.
L’òmmunu lu tène
e la fémmena lu mantène
L’uomo ce l’ha
e la donna lo mantiene
(Il cognome)
8.
Ommunu e òmmunu se po’ fa’,
fémmena e fémmena nun se pote fa’
òmmunu e fémmena se pote fa’!
Uomo con uomo si può fare,
donna con donna non si può fare,
uomo con donna si può fare!
(La confessione)
9.
Ramme lu piripirìllu,
ca lu port’a piripià,
lu mettu ncuorp’a quillo
e po’ te lo torn’a ddà
Dammi il piripirillo,
perché lo metto a piripià,
lo metto in corpo a quello
e poi te lo restituisco.
(Il lievito)
10.
Ngimm’a na muntagnèlla
ngi so’ tanta pucurèlle:
passa lu lupu e r’arrerùpa
Sopra una montagnella
ci sono tante pecorelle (le lendine):
passa il lupo e le butta nel dirupo. (La pettenéssa)
11.
Pile, pilòs
tene carna, pil’e osse
Pile, pilos
ha carne, peli e ossa
(La pecora)
12.
Jàmmuci a ccurcà, mia cara cocchia,
ca facìmu la rèpleca r’ sotta;
la rèpleca r’ sotta nui facìmu:
pil’e ppili ne unìmu!
Andiamo a coricarci, mia cara coppia,
che faremo la replica là sotto,
la replica là sotto noi facciamo:
peli e peli ci uniamo.
(Le ciglia degli occhi che si chiudono col sonno)
13.
Ng’è na cosa:
senza cosci corr’e scappa,
senza lengua canta e canta,
serv’a lu povuru e a lu Re:
nduvina che ggh’è?
C’è una cosa:
senza gambe corre e scappa,
senza lingua canta e canta,
serve al povero e al Re:
indovina che cos’è?
(L’acqua)
14
Ngi stanne ddoie funustredde:
a lu juornu stann’apierte
e a la nottu stannu chiuse.
Ci sono due finestrelle:
di giorno stanno aperte
e di notte stanno chiuse.
(Gli occhi)
15
Ng’è na cosa ca la nottu sta chinu
e a lu juornu sta vacandu
C’è una cosa che di notte sta piena
e di giorno sta vacante.
(Il letto)
16
Ng’è nu monucu ca vai giranne:
gira ra qua, gira ra ddà
e semp’a la casa vai a tturnà
C’è un monaco che va in giro:
gira di qua, gira di là
e sempre a casa vuole tornare.
(Il lievito)
17
Ng’è na cosa erta quant’a nu cane
e porta cientu cose a cavaddu
C’è una cosa lata quanto un cane
e porta cento cose a cavallo.
(La pianta di ceci)
18.
Tata luongu luongu,
la mamma pieristuorti,
la figlia faccitonna
Il padre alto alto,
la madre dai piedi storti,
la figlia dalla faccia rotonda.
(Il tralcio, la vite, il grappolo d’uva)
19.
Ng’è na cosa,
è quant’a nu pùniu
e se énghe na casa.
C’è una cosa,
è quanto un pugno
e riepie una casa.
(La lampadina elettrica)
20.
Quannu lu viecchiu nfuntutéa,
miezz’a re ccosci li penneléa
Quando il vecchio brontola,
tra le cosce gli penzola.
(La corona del rosario)
21.
Quannu màmmeta fila lu fusu,
cummu la tène aperta o chiusa?
Quando tua madre fila col fuso,
come la tiene, aperta o chiusa?
(La mano)
22.
Allécca allécca,
nculu ngi lu mettu.
Lecca lecca,
nel buco del culo glielo metto.
(L’atto di infilare l’ago)
23.
Ng’è na fiasca cu quattu vocche sotta
e nu’ s’ammocca
C’è un fiasco con quattro bocche sotto
e non si rovescia
(La poppa della mucca)
24.
Figliola, oj figliola,
hé assaggatu lu primu ruloru:
zit’e mmaretate
tutte quante l’hènne assaggiatu!
Figliola, oi figliola,
hai provato il primo dolore:
nubili e maritate
tutte quante l’hanno provato
(L’ago con cui si pratica il buco nel lobo
per attaccare gli orecchini)
25.
Nnanz’a na chiana
tène na vocca chiena r’ pane,
lu tiempu jocca o cchiove,
quistu qua e mmo’se move!
Davanti a una pianura
tiene una bocca piena di pane,
o fiocca o piove,
questo coso di lì non si muove.
(Il forno)
26.
Nunn’è ppuorcu e caccia scuma,
nunn’è voju e tène re ccorne,
nunn’è ciucciu e porta la varda
Non è un maiale e caccia la schiuma,
non è un bue ed ha le corna,
nonè un asino e porta il basto.
(La lumaca)
27.
Tene li rienti,
e nu’ mmozzeca
Tiene i denti
ma non morde
(Il pettine)
28.
Tene la vocca e nu’ pparla,
tene li pieri e nu’ camina
Ha la bocca, ma non parla;
ha i piedi e non cammina
(La lettera)
29.
Femmena neura r’àvuti palazze,
care nderra e nu’ nse sface,
ind’a la chiesa lume face
Donna nera di alti palazzi,
cade al suolo e non si schiaccia,
nella chiesa luce fa.
(L’oliva)
30.
E’ àvutu quant’a nu àddu
e tène lu pèru cum’a nu cavaddu.
E’ alto quanto un gallo
e tiene il piede come quello di un cavallo.
(L’orcio).
31.
Mamma face la pisciata longa longa;
tata se ngunocchia cumm’a nu santu,
mamma rice: “Mittammìllo ponta ponta”
e tata nge lu métte tuttu quanta!
Mamma fa la piscia lunga lunga;
papà si inginocchia come un santo,
mamma dice: Mettimelo solo una punta!”
ma papà lo ficca tutto quanto!
(La botte, l’uomo che attinge e poi chiude
col tappo di stoppa)
32.
Sott’a lu pontu r’ Pacchi Pacchi
ng’è na femmena verdolìna:
tène l’uocchi cum’a na atta,
figliu r’ Re chi l’anduvìna.
Sotto il ponte di Pacchi Pacchi
C’è una donna verdolina:
tiene gli occhi come quelli di una gatta,
è figlio di Re chi indovina.
(La rana)
33.
Vinti ventìne r’ atte,
quattu pieri a gatta,
cincu ogne a ppèru,
fatti lu cuntu, quantu vène?
Venti ventine di gatte,
quattro piedi ogni gatta,
cinque unghie per ogni piede,
fatti iconti, quanto viene?
(Ottomila)
34.
Cchiù lu striche e cchiù se ngazza
Più lo strofini e più si incazza!
(Lo zolfanello)
35.
Carlu Magnu, Re r’ Francia,
vai int’a l’acque e nun s’abbàgna,
vai int’a re ffuocu e nun s’abbrùcia:
Carlu Magnu appiccia la luce.
Carlo Magno, Re di Francia
Va nell’acqua e non si bagna,
va nel fuoco e non si brucia:
Carlo Magno accende la luce.
(Il sole)
36.
Ddui luciénti, ddui pungiénti,
quattu piròcchele e na scopa.
Due sono luminosi (occhi), due pungenti (corna),
quattro bastoni nodosi (zampe) e una scopa (coda).
(Il bue)
37.
Int’a na vutticèdda
nge so’ ddoi qualità r’ vinu.
Dentro a una botticina
vi sono due qualità di vino.
(l’uovo).
38.
I’ vengu ra Milanu
cu na cosa tosta mmanu:
arriv’addo’ la sposa
e la mpizzu int’a la pelosa.
Io vengo da Milano
con qualcosa di duro in mano:
giungo dalla sposa
e la infilo tra i peli.
(La pettenéssa)
39.
I’ m’azzeccu, tu t’azzicchi,
tu te stai e i’ te lu mettu.
Io mi avvicino, tu ti avvicini:
tu stai fermo e io te lo verso.
(La bottiglia e il bicchiere)
40.
Tutte re femmene la tènene sottu:
chi la tène sana e chi la tène rotta;
chi gilonda e chi pulita,
quattu iérete è dda ferita
Tutte le donne ce l’hanno sotto:
chi ce l’ha sana e chi rotta;
chi sporca e chi pulita,
quattro dita larga è la ferita.
(La piega della veste)
41
I’ la tengu e tu nun la tieni,
vieni addu me e puru tu lu tieni;
mitti la tua mbrazz’a lu miu,
arde la tua, arde lu miu… che gh’è?
Io ce l’ho e tu non ce l’hai,
se vieni da me anche tu l’avrai;
metti la tua in braccio a me,
arde la tua e arde il mio… che cos’è?
(Il fiammifero e la candela)
42.
Ng’è na cosa, è cumm’a na rosa,
rosa nunn’è… nduvina che gh’è.
C’è una cosa, è come una rosa,
rosa non è… indovina cos’è.
(la saponetta)
43.
Ng’è na cosa, pelosa ra fore,
pelosa ra intu;
aìza la coscia e féccalu intu.
C’è una cosa, pelosa di fuori,
pelosa all’interno;
alza la gamba e ficcala dentro.
(Il calzino di lana)
44.
Ng’è na cosa circa nu parmu,
quannu pesciu lu pigliu mmanu… che gh’è?
C’è una cosa di circa un palmo,
quando orino lo prendo in mano… che cos’è?
(L’orinale)
45.
La femmena lu piglia lu iuornu ca sposa,
lu Papa lu tene e nun l’aùsa,
la vereva lu tenìa e l’è perdutu.
Accummenza cu la c… che gh’è?
La donna lo prende il giorno che sposa,
il Papa ce l’ha ma non lo usa,
la vedova l’aveva e l’ha perduto.
Comincia con la c… che Cos’è?
(Il cognome)
46.
Int’a l’anche r’ mamma nge stai na fonte,
e tata l’arora cumm’a nu santu,
nge lu fecca a picca a picca,
roppu nge lu fecca tuttu quantu. Che gh’è?
Nell’anca di mia madre c’è una fonte,
e mio padre l’adora come fosse un santo,
la infila dentro piano piano,
fino a che la ficca tutta quanta.
(La cannella che si infila nella botte di vino)
47.
Ngimm’a n’erta muntagna
ng’è na preta chiatta:
nun vére e nun sente,
e chiama tutta la gente
Su una ripida montagna
c’è una pietra banca:
non vede e no sente,
ma chiama tutta la gente.
(la campana)
48.
Muortu te ténge
e vivu te coce
Se morto, ti tinge;
se è vivo, ti brucia.
(il carbone)
49
Nun è llorgiu e sona,
nunn’è Re e tène la curona
Non è orologio, ma suona;
non è un re, ma ha la corona.
(il gallo)
50.
Nun è pittore e pitta lu muru,
nun è serpa e bbaje pe’ terra.
Non è pittore, ma tinge il muro;
non è serpente, ma striscia per terra.
(la lumaca).